Sulla strage di Erba, la base di raffronto rispetto alle prove nuove “è costituita da un tessuto logico-giuridico di notevole solidità non solo per la forza espressa da ognuna delle principali prove acquisite in ragione della loro autonoma consistenza (“confessione dei due imputati, ancorché ritrattata, ammissione di colpa riportata in appunti manoscritti e in scritti diretti a terzi, deposizione dibattimentale dell’unico testimone oculare, Frigerio, presenza di traccia ematica riconducibile a Valeria Cherubini sull’auto di Romano”), ma anche per la presenza di innumerevoli e minuziosissimi elementi di riscontro“. E’ quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con cui i giudici della Quinta sezione penale della Cassazione lo scorso 25 marzo hanno rigettato la richiesta di revisione del processo sulla strage, presentata dai difensori di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all’ergastolo.
“I consulenti dei condannati – scrivono i supremi giudici – muovono dal dato che Mario Frigerio (sopravvissuto alla strage, ndr) non abbia riconosciuto, all’inizio, Olindo Romano e sostengono che, in base alle più recenti conquiste delle neuroscienze, non sia possibile passare da un volto ignoto al successivo riconoscimento di un volto noto. In realtà la sentenza definitiva di condanna ha appurato che Mario Frigerio aveva riconosciuto immediatamente e senza ombra di dubbio Olindo Romano mentre usciva da casa Castagna e proprio per questo gli si era avvicinato con fiducia – si legge nelle 53 pagine delle motivazioni – Come Frigerio stesso ebbe modo di spiegare in dibattimento, non intese dirlo subito agli inquirenti, ai figli e agli altri che lo sollecitavano, perché voleva capire: non si capacitava dell’accaduto e la sua mente rifiutava che un vicino di casa potesse aver aggredito con una simile brutalità lui e la moglie’’.
Inoltre, “la richiesta di revisione adduce una serie di elementi dai quali’’ desumere che in realtà l’11 dicembre 2006, giorno della strage, “vi erano altre persone ad attendere le vittime all’interno dell’appartamento e ciò nell’intento di dimostrare la falsità delle confessioni e di rendere plausibile una ipotesi alternativa’’. Per la Cassazione però “non si ravvisa alcun vizio argomentativo nella valutazione della Corte di appello di Brescia che ha ritenuto questi elementi del tutto irrilevanti: le dichiarazioni e le interviste televisive provengono da soggetti già sentiti e presentano indicazioni generiche e inconcludenti, quando non anche frutto di mere illazioni o convinzioni soggettive, peraltro smentite da dati di fatto di segno contrario’’.
Per i supremi giudici “è manifestamente infondata la doglianza, ripetutamente evocata dai ricorrenti, circa l’assenza di una valutazione sinergica dei nuovi elementi di prova, da leggersi non in modo atomistico ma nelle reciproche interessenze. Tale vizio permea, semmai, il costrutto impugnatorio che, incentrato su isolate circostanze (spesso marginali), non sperimenta un effettivo raffronto con la reale struttura argomentativa e probatoria (complessa e articolata) posta a fondamento della pronuncia definitiva di condanna. Va aggiunto che, come si è visto, molti dei nuovi elementi proposti sono del tutto sforniti di idoneità dimostrativa, sì da rendere superflua una comparazione. Infine, la Corte di appello di Brescia non si è affatto sottratta al compito di effettuare una comparazione globale tra elementi ‘vecchi e nuovi’. La motivazione sulla inammissibilità delle richieste è esaustiva, immune da cadute di logicità e dai denunciati travisamenti della prova’’, concludono i giudici della Cassazione.