“La mia vocazione è nata nella parrocchia, vedendo l’impegno dei miei genitori e dei sacerdoti che conoscevo da bambino”. Così Robert Francis Prevost, eletto oggi Papa con il nome di Leone XIV, si raccontava in una lunga intervista registrata dalla Rai nei mesi scorsi e trasmessa oggi nello speciale del Tg1 dedicato alla sua elezione.
Un racconto intimo, umano, che getta luce sul cammino vocazionale e spirituale del nuovo pontefice, il primo statunitense della storia, e forse anche il più “globale” mai salito al soglio di Pietro: nato a Chicago nel 1955 da una famiglia di origine francese, italiana e spagnola, Prevost ha vissuto la maggior parte della sua vita adulta in America Latina, come missionario, vescovo e superiore generale degli Agostiniani.
“A 14 anni entrai in seminario. Lì iniziò tutto”
Nell’intervista, Prevost ricorda con gratitudine e lucidità l’ambiente familiare in cui è cresciuto: “I miei genitori erano molto attivi in parrocchia, e questo ha avuto un peso. Frequentavo una scuola cattolica e conoscevo diversi preti diocesani. L’idea di diventare sacerdote si è fatta strada lentamente, ma con decisione”. Il primo passo concreto arrivò presto: “A 14 anni entrai nel seminario minore, e da lì la storia è andata avanti, tra teologia, amicizie, e una crescente consapevolezza della mia chiamata”.
Una chiamata vissuta sin dall’inizio con lo spirito della vita comunitaria e della ricerca interiore, in sintonia con l’eredità spirituale di Sant’Agostino: “Conoscere sé stessi è un tema centrale. Come giovani agostiniani, imparavamo anche l’importanza dell’amicizia e della condivisione della fede”.
Il ruolo decisivo del padre
Uno dei passaggi più intensi dell’intervista riguarda la figura del padre, maestro di scuola, guida discreta ma determinante nei momenti di dubbio: “Quando si è giovani, è naturale pensare: ‘Forse è meglio una vita normale, una famiglia, dei figli’. Mio padre mi parlava con grande umanità. Non era un teologo, ma condivideva la sua esperienza, anche quella con mia madre, parlando dell’intimità, dell’amore, del rispetto. Quelle parole mi hanno accompagnato per sempre”.
Il dialogo avvenne poco prima del noviziato, in un momento delicato e decisivo: “Eravamo fuori casa, non seduti come ora. Ma fu un momento chiave, che ricordo ancora oggi con precisione”.
“Sentivo che non dovevo restare nel mio Paese”
Dopo gli studi in teologia negli Stati Uniti e un periodo a Roma per il dottorato in diritto canonico, Prevost compie una scelta radicale: parte per il Perù. “Sentivo il desiderio di essere missionario, di non restare nel mio Paese. Volevo partecipare, in qualche modo, a qualcosa di più grande”.
In Perù vive i suoi primi anni da sacerdote in una piccola prelatura del nord del Paese. “Lì ho maturato la mia esperienza come religioso. Ho scoperto il valore della prossimità, della vita tra la gente, e della missione come testimonianza silenziosa ma concreta”.
La dimensione missionaria e l’orizzonte internazionale diventeranno tratti distintivi del suo profilo ecclesiale. In seguito, Prevost sarà Superiore generale degli Agostiniani per dodici anni, girando il mondo, poi vescovo di Chiclayo, e infine prefetto del Dicastero per i Vescovi, nominato da Papa Francesco.
“La Chiesa non è solo istituzione”
Ma è soprattutto la sua visione della Chiesa a colpire: “Troppo spesso la Chiesa viene vista solo come istituzione. Ma non è questo il cuore. La Chiesa è comunione, è la testimonianza dei martiri, di uomini e donne che vivono la fede anche in contesti difficili, tra guerre e violenze. È una voce di speranza per il mondo”, ha affermato.
Una visione che non cancella la dimensione istituzionale, ma la relativizza, la pone al servizio della comunità dei fedeli: “La Chiesa deve essere viva, abitata. È lì che si gioca la sua credibilità”.